Sono ben consapevole di scrivere a un’entità astratta, la
concretizzazione della spersonalizzazione burocratica di weberiana memoria, per
cui non mi perdo in inutili e cerimoniosi incipit (Cari, Gentili et similia…).
Vi scrivo per segnalarvi alcune questioni che riguardano il
vostro discutibilissimo operato e di cui non vi sarebbe nemmeno bisogno di
parlare se, da parte degli organizzatori e gestori di Auditorium Parco della
Musica e quella cricca di criminali in doppiopetto che rispondono al nome di
Ticketone, ci fosse un minimo di consapevolezza e senso di responsabilità.
Ovviamente so già che la spersonalizzazione, coniugata con protervia
e diniego, non potrà che produrre il più scontato silenzio da parte vostra. Ma
siccome una responsabile con cui mi sono lamentato ieri sera mi ha chiesto “la
grandissima cortesia di scrivere” a questo indirizzo, ci provo: tanto, ho tempo
da perdere.
Prima questione: da anni Auditorium Parco della Musica, con
bando di gara, appalta all’esterno la vendita dei biglietti on line. Come per
magia, vince sempre la stessa pattuglia di malavitosi: TicketOne. Questi ultimi,
del tutto impermeabili anche al pelo e contropelo che gli hanno fatto su Report
(e che evidentemente nessuno ha visto, altrimenti avrebbe dovuto esserci una sollevazione
popolare e nessuno sarebbe più andato ai concerti acquistando i loro biglietti
supermaggiorati), taglieggiano i malcapitati acquirenti imponendo un obolo di 2
euro e 50 centesimi sulla stampa del biglietto. In cambio non ti regalano la
cartuccia di toner: quella ce la devi mettere tu, insieme alla carta e alla stampante.
Come se Ikea ti chiedesse i soldi se vuoi montarti i mobili a casa, da solo. Misteri
del capitalismo allegro. Quello che si rifà al modello dei Lehmann Brothers,
per capirci, portandoci dove ci ha portato.
Seconda questione, ancora in relazione alle aberrazioni del
capitalismo acefalo che esprimete attraverso i vostri regolamenti. Ieri, all’ingresso,
poco prima che sul palco si cominciassero a udire canzoni libertarie scritte da
un certo Guccini, al pari di tutti gli altri sono stato perquisito come se
potessi avere addosso le armi di Saddam Hussein che, ai tempi, non hanno
trovato in Iraq. Diversamente dagli altri, mi è stata sequestrata una macchina
fotografica bridge (roba non professionale, per capirci), che è finita nel
portabagagli di un agente di polizia (prevedere uno spazio per il deposito
oggetti o un guardaroba, no, eh?). Sulla questione avrei un paio di domandine
facili facili. La prima: perché mi sottraete la macchina fotografica se poi,
all’interno della Cavea, non c’è improvvisato videomaker che non si diletti col
proprio cellulare a riprendere, registrare, fotografare? Ok, facciamo finta che
si tratti di una questione di qualità audio/video e che sarebbe piuttosto
difficile sequestrare lo smartphone a tutti gli avventori. In questo caso – da epigono
di Bin Laden – potrei trasformarmi in un pericoloso rivale sul mercato del
materiale video. Sì, insomma, potrei fare concorrenza ai fotografi professionisti
con obiettivi più lunghi di una proboscide d’elefante o del naso di Cirano, per
restare in tema con il repertorio della serata. Ma come? Non siete voi i
liberisti che tanto soffiano sulla fiamma della libera concorrenza, lo Stato da
smantellare e tutte quelle amenità di cui parlate a vanvera? Non potrebbe
venirvi in mente che il mio occhio sul mirino di una macchina fotografica
disturba il vicino assai meno del display di un iPhone11? O che magari quelle
foto uno se le riguarda a casa e finisce lì, senza lucrarci sopra? Possibile che
non conosciate altra logica che non sia quella del profitto, che non percepiate
alcuna azione sociale che non sia motivata dal denaro? Siete talmente abituati
a un comportamento predatorio e parassitario che non riuscite e vedere altro. Siamo
passati dal “vietato vietare” degli anni Sessanta all’«obbligatorio obbligare»
di oggi. Vogliamo poi dire qualcosa sul sistema di regole, ridotte a semplici
icone su un tabellone? Una ics (X) su una macchina fotografica cosa vuol dire? Che
non la devo lanciare sul palco come oggetto contundente o che ne devo inibire
le funzioni?
La terza questione è quella che rende lapalissiano,
trasparente, tragicamente grottesco il vostro essere l’incarnazione della
banalità del male, di cui parlava Hannah Arendt a proposito di criminali di
guerra come Eichmann. L’unica differenza tra voi e il gerarca nazista sta nell’entità
dei danni. I poveri e sottopagati steward e hostess che lavorano (immagino, a
cottimo) da voi sono degli Yes-Men (e Yes-Women) che non hanno la benché minima
idea del regolamento che sono chiamati ad applicare. Sempre ieri sera, per
dire, superata una perquisizione degna del JFK International Airport post 11
settembre, prendo una birra nel bar, servita dall’unico tuttofare a
disposizione di una quarantina di pazienti avventori in attesa di idratare l’ugola
(Mayo e Ford, questi sconosciuti…). Porto il mio bicchiere di plastica contenente
birra nella Cavea, dove vengo fermato perché “i superalcolici non si possono
consumare nella Cavea”. Ora, al di là delle competenze di chimica della
cerebrolesa di turno che mi ha fermato (in un’epoca di iperboli, anche una birra sgasata diventa
SUPER), mi sarebbe piaciuto sapere qual è la ratio nell’ammettere una signora
con bottiglia di vetro (potenziale oggetto contundente) contenente acqua e non
me, che sono maggiorenne e sto consumando la birra che mi è stata venduta a
circa trenta metri dal posto che ho pagato esosamente tra le mille
maggiorazioni dei già menzionati malavitosi di TicketOne, in combutta con la
vostra organizzazione. La risposta è: “è il regolamento!”. Sì, d’accordo, ma
qual è la ratio del regolamento? Risposta: “è il regolamento!”. È proprio qui
il busillis: quando Eichmann venne processato in Israele per avere dato il suo
sostanzioso contributo all’Olocausto, non faceva che ripetere che “quelli erano
gli ordini”. Ossia, traduco: “era il regolamento!”. Trova le differenze. Nessuna.
Personalmente, quando mi si chiede di attuare un regolamento
faccio sempre tre cose: 1) mi informo sul suo senso; 2) ne discuto presso gli
organi preposti, se non sono d’accordo; 3) se costretto alla sua applicazione,
mi scuso con chi – in qualche modo – deve farne le spese. Quando poi, come in
occasione degli esami universitari on line (chi vi scrive è un professore
universitario, non un ergastolano in libera uscita), mi viene chiesto di
trasformarmi in poliziotto e di applicare un doppio controllo audio/video sugli
studenti esaminati, faccio obiezione di coscienza.
Ma capisco che tutto questo sia larghissimamente fuori dalla
vostra portata: tanto i responsabili vanno cercati sempre in qualche
istituzione. Come se le istituzioni fossero un organismo aiutopoietico, scevro
da qualsiasi condizionamento e responsabilità umana.
S.N.